Barcaro da tre generazioni, Riccardo
Cappellozza descrive la sua gente come “zingari acquatici, persone
con molto senso della fratellanza che si aiutavano tra loro. Ci si
dava una mano senza avanzare nulla l'uno dall'altro”. Un lavoro
certamente non facile il suo, che ti costringeva ad imparare cento
mestieri, dall'accendere il fuoco a pulire il cappello del capitano.
A 13 anni, appena finita la seconda
guerra mondiale, si imbarca per il suo primo viaggio per dare una
mano al padre. La barca era sconquassata a causa del conflitto e il
viaggio durò ben 4 mesi “durante il quale non ho mai visto la mia
madre”.
“Parlando
di navigazione potrei riempire cinque divine commedie, ogni giorno
una diversa avventura. Il mio ricordo più bello risale al 1946:
eravamo a Tor di Fine vicino a Caorle e abbiamo caricato la barca di
grano. Era appena finita la guerra, avevamo patito la fame e lì di
fronte a noi avevamo 1700 quintali di grano. Era una cosa
incredibilmente bella”.
La vita sulla barca era faticosa perché
“navigare
non è certo andare a passeggio. Ma la nostra fatica non era fatica,
si doveva fare così. Una volta per lo sforzo sono stato cieco per
un'ora: avevo trainato con le spalle una barca da 200 tonnellate. Ora
ho 60 anni di lavoro alle spalle, e un'esperienza straordinaria.
Quello del barcaro è un bel mestiere senza padroni. Il nostro unico
padrone era la natura.”
Viaggiare
a bordo di un burchio è un privilegio perché si parla di
archeologia navale, “io sono nato in barca e per me la vera barca
e' in legno. Le altre non mi dicono niente. La mia barca, muta,
parlava”. Navigare in quegli
anni era completamente diverso da oggi, in primis per
le condizioni dell'acqua: “fino
al 1953 si beveva l'acqua dei fiumi, la migliore era quella del Po,
durava in botte fino a 20 giorni mentre quelle del Brenta e
dell'Adige solo 10 giorni. Il grande cambiamento l'ho notato a
partire dal 1962: il Po non era più quello di prima, l'acqua era
diventata nera.” Lo stesso vale per la viabilità fluviale, “una
volta i fiumi avevano le draghe che portavano la sabbia altrove
scavando il canale per la navigazione ma oggi quasi tutto è
abbandonato. Ecco perché ci sono esondazioni ad ogni pioggia”.
Una carriera
singolare quella di questo barcaro, che dopo essere sceso dalla sua
barca si sentiva un pesce fuor d'acqua e ha fatto i lavori più
disparati prima di racchiudere nel Museo della Navigazione Fluviale
di Battaglia Terme tutto ciò che il padre gli aveva insegnato.
Nato nel 1999,
questo museo è una perla sconosciuta alla terraferma “ed io ho
promesso a tutti i vecchi barcari che finché avrò fiato parlerò
della nostra storia”. L'idea è nata per caso in seguito alla
mostra fotografica “Canali e burci”, prima opera di Cappellozza,
che ha ottenuto riconoscimenti internazionali. “Questa idea è nata
in biblioteca”, racconta, “parlando con il bibliotecario Franco
Sandon abbiamo detto che si poteva fare un museo partendo dalla
mostra fotografica. Io ci ho pensato molto e non ho dormito per 3
notti. Poi ho cominciato a crearlo. Per cinque anni ho restaurato
tutto questo imparando come si restaurano il legno e il ferro: mi
sono dunque dedicato io alla ricerca, al restauro e
all'allestimento.”
“Non è stato
facile far nascere tutto questo” ma, continua Cappellozza “ho
ricevuto anche grandi soddisfazioni, per esempio nel 2009 sono stato
nominato padovano eccellente, e questo grazie ai visitatori del
museo.
“E a 80 anni
voglio ancora migliorare, perché quello che mi ripaga è la
soddisfazione del pubblico che viene qui. Per me il burcio è stata
una grande scuola di vita...io ho la quinta elementare, ma il remo è
stata la mia penna stilografica per scrivere la mia storia
sull'acqua”.
Sarah Diotallevi –
Centro Internazionale Civiltà dell'acqua.
Foto: Francesco Trotta.
Foto: Francesco Trotta.
Nessun commento:
Posta un commento